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di lucio forte
Cercavamo tutti di non darle il minimo dispiacere. Era la nonna, la vecchia madre, la “mamà” nell’antico francesismo dei grandi.
Troppi dolori nella sua lunga vita. Negli anni estremi però non la vidi mai piangere. Forse non ne fu più capace. Anche se, d’abitudine, non cessò mai di passarsi le mani sulle guance. Le mani deformi d’artrite e dalle grosse vene rilevate blu, le stesse palme che tante volte avevano versato fresco sereno su una fronte che ardeva di febbre.
Né smise mai, tuttavia, il suo umorismo pensoso d’ascendenza contadina. Capace di strapparci un sorriso anche in momenti in cui da ridere c’era in fondo davvero poco.
Arrivò anche a guardare le immagini miracolose d’un televisore. Ma quando i volti in bianco e nero presero ad apparire sempre più evanescenti e lattiginosi, lei non parve curarsene più di tanto.
Alla figlia Antonietta che viveva con lei (da nubile o da separata? L’enigma rimase irrisolto perché non argomentabile dai nipoti.) chiedeva spesso, invece, di accendere per lei la vecchia radio “Balilla”. Quella con l’occhio magico e due fasci littori sull’altoparlante: “A quest’ora mettono i dischi…”.
Batteva, piano, il tempo sul bracciolo di damasco sempre più lucido di vecchio. Ma smetteva quasi subito.
Capitava che allora si rivolgesse al canarino Mimì”. Un delizioso piccolo animale dalle piume arruffate di giallo sfumato bianco.Dallo stesso nome del vecchio compagno, un po’ libertino, eppure così caro. Più ancora da quando se ne era andato per sempre. L’uomo della sua vita, l’unico uomo della sua lunga vita e la cui presenza nel suo mondo quotidiano non smise d’aggirarsi.
Perciò succedeva spesso che lei, provvisoriamente ospite di una delle altre figlie, verso sera chiedesse di essere aiutata a rimettersi in ordine, pettinata col piccolo”toupé” di capelli grigi da sempre, e di essere riportata subito a casa sua. E a chi, con tenera sollecitudine, le chiedeva perché mai dovesse andarsene, lei rispondeva invariabilmente che doveva andare a preparare la cena per quel galantuomo.
Mentre, una volta a casa, non c’era purtroppo che quell’altro Mimì col quale parlare.
“Canta Mimì! Fammi un po’ di compagnia. Fammi sentire… “.
Una sera, però, anche Mimì si stancò della sua gabbietta. Si coprì il capo con l’ala. Un palloncino giallo sfumato di bianco; ma quella sera dovette sentire più freddo che mai. L’indomani Antonietta lo rivide con le zampe per aria.
Il “ricambio” sarebbe stato fornito al più presto da Saverio, amico pescivendolo e allevatore di canori pennuti. Me lo fece sapere Antonietta, nel telefonarmi la ferale notizia. In più mi disse che in attesa del sostituto lei aveva pietosamente fissato uno scombinato gomitolo di fili gialli all’asticella trespolo ormai deserta.
Nella nebbia della vista che l’abbandonava, alla nonna quel mucchietto di lana parve ugualmente Mimì. Ma fino a un certo punto. Perché quell’affare, com'era ovvio, non avrebbe mai potuto proporle né trillo né gorgheggio.
“Che fa non canti, ah? Ma che fa non si muove stamattina?” Mamà però non oso chiedere perché o altro. Ma il petto scarno prese a sollevarsi con un poco d’affanno.
Saverio, per fortuna, non si fece attendere. E Mimì presto cantò di nuovo. Però con la voce d’un altro.
“Ma com’è? Hai cambiato voce?” – chiese la vecchietta con sommessa apprensione.
Poi la risposta se la dette da sé. “ Ho capito: Forse è la muta”.
Si consolò, aggiungendo per chi non le dava risposta: “ ‘u sapiti ? Dicinu che quanno mutano i pinni cambiano pure ‘a vuci.” “Mi pare proprio che l’epoca sia questa”.
E respirò più lieve.