lunedì 26 aprile 2010

PORTARIACONDIZIONATA


Nel contesto delle memorie garibaldine, sicuramente il Vicolo della Salvezza riveste un ruolo fondamentale. Altrettanto quindi il portale che si affaccia sul vicolo, oggi nobilitato... nell'aspetto e nelle funzioni da una assidua manutenzione... e da nuove e attuali compiti... quali reggere i motori dei condizionatori d'aria!!

(Fotografia di Andrea Ardizzone)

martedì 13 aprile 2010

“…Lu lupo s’à mangiatu la picurella…” Augusta Modica (fine)

Il tempo si era guastato ed il vento, sempre più freddo, penetrava attraverso le fessure e batteva sui vetri, mentre le castagne si arrostivano lentamente nel fuoco acceso del caminetto della stanza da pranzo “la stanza da ricevere” con un tavolo di legno massiccio, le sedie, una vecchia credenza ed un divano abbastanza comodo. Non c’era un piatto, una tazza, un tappeto, un oggetto che fosse il ricordo tramandato da passate generazioni, tutto era pronto per essere sostituito o buttato via dopo essere stato usato. Niente fotografie in cornice o sulle pareti, soltanto una gigantografia enorme poggiata su un muro, in bianco e nero di due sposi rigidi e poco naturali nei vestiti nuziali, che guardavano, imbarazzati verso l’obiettivo. Edoardo, sorprendendo il suo sguardo incuriosito, le confidò che era un ingrandimento di una foto di cui si sarebbe servito per un evento culturale, da allestire in un rinomato locale della città, dove, entrambi, abitavano, con spunti imprevisti….e sorprese! Aggiunse che gli sposi erano i suoi genitori ma la fotografia non era stata scattata durante la cerimonia, bensì nello studio del fotografo; dove si erano rivestiti degli abiti indossati durante il matrimonio e, messi in posa, erano stati immortalati!
Dalla stanza da pranzo, salito un gradino, si accedeva ai locali dove c’erano la camera da letto e lo studio di Edoardo, davanti la porta, come a guardia, un pellicano impagliato, con le grandi ali spiegate sopra una mensola. Seguendo Edoardo le sembrò che il grande uccello sbattesse le ali alle sue spalle ma non si voltò, sapeva che era la sua fantasia a suggerirle sensazioni che si convertivano in suoni o rumori. Povero pellicano!Aveva perso la sua strada e sorvolando la casa era stato abbattuto da una fucilata, impagliato era finito a fare bella mostra di sé su quel ripiano, lontano dal mare che voleva raggiungere.
Sul letto era buttata una coperta a colori vivaci, lavorata all’uncinetto con maestria e cuscini morbidi e gonfi, sparsi alla rinfusa, lei sedette a gambe incrociate, osservandone i riquadri mentre Edoardo, chino sul tavolo, disegnava e continuava a ricordare episodi della sua infanzia; il tono pacato e la voce bassa, evidenziavano, rendendoli vivi e palpitanti, fatti accaduti anni addietro. Volgendosi, di tanto in tanto, verso di lei rammentava come avrebbe voluto andare via, conoscere gente, le strade delle grandi città percorse dalle automobili, i locali affollati, le vetrine con in mostra tutto quello che si poteva desiderare, un mondo che a lui era negato!Sorridendo le descrisse un ragazzino che non saltava un giorno di scuola e, pedalando di buona lena dietro la corriera, aspirava voluttuosamente i puzzolenti gas di scarico, fantasticando e accompagnando, con il pensiero, il mezzo che si….allontanava.
La sorella maggiore non poteva fantasticare, continuava a lavorare e ad aiutare la madre nelle faccende di casa sino a quando un ricco proprietario dei dintorni non cominciò ad accennare ad un possibile matrimonio, che avrebbe potuto aver luogo, a suo tempo, tra suo figlio e la ragazza, sempre più ammirata nel circondario. il padre di Edoardo fu molto lusingato; a sua figlia non sarebbe mancato mai niente, il pretendente era bravo e buono, la loro vita sarebbe stata felice e lui questo voleva:il bene della figlia, che, ragazzina com’era, certamente avrebbe dimenticato quell’altro che…chissà, sposandola, avrebbe potuto portarla via, lì dove era andato a cercare e trovare lavoro.
Era così attenta ad ascoltare che quasi tratteneva il respiro per non perdere neppure una parola, ma Edoardo, stirando le braccia e posando la matita, la invitò a fare una passeggiata, profittando del sole che bucava le nuvole gettando strisce di luce tra i rami degli alberi. Uscirono dalla porta finestra all’aperto ma lei non riusciva a ritrovare l’allegria che l’aria frizzante del primo giorno le aveva donato, sentiva come un peso sul petto ed un’ansia che la rendeva inquieta. Non dovette aspettare molto perché il suo amico passò a descrivere la sera in cui le due famiglie si erano incontrate; grandi guantiere con i dolci di pasta di mandorle sul tavolo e tutti con i vestiti della festa, le saliva al naso l’odore dei pasticcini, avvertiva il gusto del rosolio nei piccoli bicchieri, udiva l’acciottolio dei piatti, le risate, le voci delle persone che parlavano sempre più forte. Guizzò nella sua mente una visione di insieme; uomini e donne intorno al tavolo, il ragazzo con i capelli umidi e lisciati, la faccia rossa per la rasatura recente ed i grossi polsi che uscivano dalle maniche della camicia, mentre la ragazzina seduta su una sedia accanto alla madre, con gli occhi bassi, teneva, distrattamente, una pasta in una mano penzoloni lungo il fianco, senza accorgersi del cane che furtivamente si era avvicinato per annusarla, leccando ghiottamente la crema gialla.
Dopo cena, aiutò la madre di Edoardo ad asciugare i piatti e le posate, non aveva bisogno di parlare perché la vecchia non si aspettava che lei replicasse o facesse osservazioni e, difatti, si limitava a sorridere o ad annuire, si facevano compagnia così, mentre il marito, con gli occhi socchiusi, guardava la televisione nella stanza da pranzo, fumando, ed Edoardo sfogliava una rivista seduto sul divano. Sedette anche lei, guardando di sottecchi l’anziana donna con le braccia poggiate sulla tavola, il marito con accanto il portacenere colmo di mozziconi, Edoardo che fissava pensosamente le faville del fuoco saltare e agitarsi nel caminetto. Incrociò i piedi sotto la sedia, intrecciando le mani in grembo e chinando la testa su una spalla, osservò le scintille di luce sullo smeraldo dell’anello che portava all’anulare della mano sinistra. Poco dopo i due coniugi si alzarono per andare a rincantucciarsi in una cameretta da bambole, piccola quasi come un armadio che poteva contenere solo il letto e senza finestre. Il suo amico le aveva detto che un po’ per noia, un po’ per abitudine, a volte in inverno, andavano a dormire, dopo una cena frugale verso le otto di sera!
Edoardo spense la televisione e rovesciando il capo sulla spalliera del divano cominciò ad accarezzarsi il pizzo della barba sul mento, lei lo ascoltava aprendo e chiudendo le dita e talvolta sentendo le unghia penetrare nel palmo delle mani.
La sorella si era tolta la vita la mattina dopo la “riunione di famiglia”, i genitori erano andati a lavorare in un campo vicino: spazzava il pavimento della cucina con una granata, spingendo la polvere oltre la soglia della porta, montai sulla bicicletta per andare a scuola e, maliziosamente, le domandai: “E ora come la metti con quell’altro?”
La sorellina più piccola era rimasta a giocare nel cortile e aveva visto la zia di “quell’altro” avvicinarsi alla finestra e sussurrare a lungo all’orecchio della sorella maggiore. Questo non sembrava un dettaglio insignificante ma Edoardo spiegò che quando lo avevano riferito al maresciallo dei carabinieri che aveva condotto l’inchiesta sulla morte improvvisa di una ragazzina di appena quindici anni; costui, stringendosi nelle spalle e agitando le mani come per allontanare supposizioni o dubbi, aveva liquidato definitivamente la questione dicendo: “Discorsi di donne!”
Si alzò dalla sedia con il corpo diventato improvvisamente pesante, le spalle curve, il passo incerto; incespicò sul gradino, entrò nella camera dove dormiva e chiuse la porta alle sue spalle. Il silenzio era invasivo e totale, senza il pianto del bambino o il canto della ninna-nanna, bevve un bicchiere d’acqua, versandola dalla caraffa posata sul comodino e cominciò a camminare avanti e indietro nello stretto spazio tra il letto e il cassettone .
Quali parole aveva detto la “zia”? Nella sua mente si animarono, una dopo l’altra, una serie di immagini senza suono sempre più delineate e consequenziali; alcune si soffermavano appena scorrendo veloci, altre, pesanti come il piombo, indugiavano sgretolandosi nel preludio di una “non morte”.
Il ragazzino, con le mani sul manubrio ed il piede poggiato sul pedale della bicicletta, volta la faccia, muovendo le labbra, verso la sorella che spazza il pavimento della cucina con la porta aperta, e svanisce pedalando velocemente lungo il sentiero, la ragazza che chiude la porta, lasciando la finestra con le persiane di legno semichiusa, mentre una figura di donna anziana si avvicina a passi lenti e posa la mano gonfia, con le grosse vene in evidenza sul dorso e le unghia orlate di nero, sull’ampio davanzale, protendendosi verso l’interno e parlando con la persona rimasta nella stanza, a voce bassa, sistemandosi il fazzoletto sulla testa, toccandosi gli orecchini pendenti dai larghi buchi nei lobi delle orecchie o poggiando le dita sulle labbra screpolate.
Era come se lei fosse accanto la finestra ma non riusciva a capire le parole. Avvicinandosi, avvertiva il tanfo delle vesti vecchie e poco pulite della donna e l’alito putrido che le usciva dalla bocca con pochi denti cariati, scheggiati e neri. Presa dalla nausea, si portò la mano al viso cercando di annusare il suo profumo, si calmò un poco, decise di spogliarsi e prima di coricarsi, prese due pastiglie di sonnifero, spegnendo la luce e cacciandosi sotto le coperte. Il materasso era morbido e la flanella dei cuscini, dove posava la guancia, aveva un buon odore, riuscì a rilassare le articolazioni e ad addormentarsi ma, aspettate, le visioni, come in agguato intorno al suo letto, strisciarono furtive introducendosi nei suoi sogni. Avvertiva un sordo dolore sulle palpebre, cercando di sollevarle per guardare, si scansò per lasciare passare la donna che si allontanava, senza vederla, con le braccia conserte e seguì il cane che raspava e abbaiava dietro la porta. La ragazza aprì, lasciandolo passare nella cucina con la tavola apparecchiata, dove c’era una tazza colma di latte fumante con pezzi di pane che galleggiavano, la vide sedere per rimestare il pane con un cucchiaio con gesti meccanici ma si alzò e cominciò a sbattere contro le pareti, girando su se stessa, come se non potesse trovare una via d’uscita, si faceva male ma non emetteva neanche un gemito, era così veloce che la scorgeva appena e appena riuscì a capire che versava nella tazza, da una bottiglia di disinfestante usato dal padre per i campi, un liquido di colore scuro dall’odore acido e penetrante. Voleva avvicinarsi ma, come accade nei sogni, non riusciva a muovere un passo, la ragazza portò bruscamente la tazza alle labbra, lasciandola, poi, cadere sul pavimento dove il latte e i pezzi di pane si sparsero, subito ingollati dal cane che si mise a lappare rumorosamente il latte. La ragazza, sentendosi bruciare la gola, corse verso la finestra spalancando la bocca mentre il cane si contorceva a terra, emettendo rochi guaiti… la portarono via mentre il cane agonizzava, dimenticato, con la bava verde che gli usciva, schiumando, dalla bocca.
Si mescolarono insieme: lo stridio dei pneumatici sull’asfalto, lo scalpiccio affrettato dei passi sulle scale, il rumore metallico di strumenti e apparecchiature ospedaliere, voci acute e ansiose che impartivano inutili comandi. Tutto, infine, si affievoliva e spegneva in un silenzio, inevitabile, interrotto ad un tratto da un grido lungo e lacerante e come uscito da una bocca che era stata tappata da una mano! Svegliandosi di soprassalto e balzando a sedere sul letto, capì di essere stata lei a gridare e mentre il sudore le bagnava la pelle, la porta si aprì e, sulla soglia si sporsero i due vecchietti, spaventati, ed Edoardo si fece avanti, accendendo la luce: “Niente, niente”, riuscì a balbettare, cercando di sorridere: “Un incubo!” Chiusero dolcemente la porta ma lei li sentiva ancora bisbigliare lì dietro, preoccupati per lei. Cercò di reprimere i singhiozzi che le scuotevano il petto e tenne stretta la mano sul cuore che le batteva furiosamente, facendole sempre più male.
La mattinata, fredda, con il luccichio della rugiada sulle foglie, l’odore della legna bruciata nell’aria e il sole che indugiava tra nuvole leggere come grandi fiocchi setosi stracciati sull’azzurro, la salutò indifferente e allegra. Facendosi schermo con le mani sugli occhi, si guardò intorno e vide l’automobile con il portabagagli aperto e la sua valigia e il beautycase, ordinatamente posati accanto i bagagli di Edoardo che chiuse il cofano con un colpo secco mettendosi alla guida, lei aprì la portiera e si sedette accanto a lui. Guardò indietro verso la casa e poggiò la mano, con le dita aperte, sul finestrino sentendo una ondata soffocante di dolore travolgerla, senza riuscire a trovare una via di sfogo. Se avesse potuto stringere tra le braccia la ragazza, blandirla e consolarla come il bambino che aveva sentito piangere durante quelle notti, portarla via con se, una figlia! Chinò la testa perché la sua sofferenza non serviva a niente e non sapeva se la pietà e l’attenzione e la condivisione provate nel seguire il percorso circolare e buio di una vita sospesa che non sarebbe mai stata vissuta, avrebbero potuto restare lì con la ragazza e, mentre la macchina si allontanava, la vide di nuovo tra gli alberi, allontanarsi svelta, reggendo un mucchio di stoffe tra le braccia seguita dal cane.

mercoledì 7 aprile 2010

“…Lu lupo s’à mangiatu la picurella…” Augusta Modica (prima parte)


Il vento, che faceva girare vorticosamente le pale dei mulini dove, una volta, si macinava il grano, strisciava a passi lenti, quasi in sordina per poi aumentare la sua corsa, sino a diventare cieco e irato attraverso i rami degli alberi, scuotendone le cime. Mulinelli di foglie, venate di giallo, turbinavano in cerchio sul terreno, da un albero all’altro… come seguendo dei passi leggeri.
Camminava frettolosamente, tenendosi il cappello sulla testa con una mano, mentre con l’altra cercava di tenere chiusa la mantella che si era gettata sulle spalle per andare a passeggiare lungo i sentieri in un pomeriggio di novembre. La campagna l’aveva accolta come un’ amica, l’aria era tersa e frizzante e respirando a pieni polmoni, le pene che si portava dentro le avevano lasciato un poco di tregua, i mandarini sui rami bassi degli alberi, tra le foglie lucide e verdi, erano saporiti e con la buccia ancora tiepida, il sapore che conosceva bene l’aveva invogliata ad allungare la sua passeggiata, sbucciando e mangiando i frutti. Il silenzio animato, tutto intorno, le faceva compagnia e, senza pensare a niente, si era allontanata, incantata nel vedere le nuvole infuocate dal sole al tramonto che, però, era andato calando rapidamente, mentre l’aria si era fatta, improvvisamente fredda e, così, come risvegliandosi da un sogno, era ritornata sui suoi passi. Si trovava ancora a distanza dalla casa e, tra gli alberi, nella luce del crepuscolo, resa tremolante dal vento, vide la ragazza che camminava come andando da qualche parte, reggendo nelle mani delle stoffe che quasi strascicavano per terra, seguita, a breve distanza, da un cane, un meticcio dal pelo giallognolo e sporco. Nonostante avesse fretta, si soffermò un attimo perché non riusciva a vedere distintamente la figura che si allontanava rapidamente, incuriosita da qualcosa che non sapeva definire. Strizzando gli occhi per il vento che sollevava la polvere, quasi correndo arrivò alla grande porta di legno, verniciata di blù, e picchiò con la mano aperta. Il portone si spalancò lentamente e finalmente entrò togliendosi il cappello, e posando il mantello su una sedia, sorrise, ravviandosi i capelli e guardandosi attorno; un vecchio granaio con un soffitto altissimo trasformato in un “loft” sottolineato da una scala di metallo che si fermava davanti una porta, sempre chiusa, una cucina con i pensili e la bombola del gas in evidenza sotto i fornelli e, al centro, un tavolo rettangolare con una tovaglia di incerato e poche sedie tutte intorno, in un angolo un magnifico ed enorme ombrellone per il sole di grossa canapa color crema, aspettava la sua destinazione. Negli angoli si ammucchiavano ceste con ortaggi o frutta e confezioni di bottiglie di acqua minerale. La semplicità delle suppellettili contrastava con l’armonia del locale, e la raffinatezza degli interventi per la trasformazione, estremamente moderna, del granaio; ma la sovrapposizione risultava, in qualche modo, accattivante. L’anziana padrona di casa scodellò il minestrone di lenticchie nei piatti mentre il marito, con la coppola sulla testa calva, tirava fuori dalla tasca il suo coltello per tagliare pezzi di pane scuro da aggiungere alla minestra. Erano solennemente fuori posto in quell’ambiente grigio e stranamente sobrio ma non si sentivano a disagio e apparivano sorridenti e compiaciuti mentre il figlio Edoardo, architetto e vissuto per molti anni a Milano, sorbiva lentamente il vino dal suo bicchiere. L’uomo e la donna parlavano un misto di italiano e dialetto, con un accento cantilenante, parlavano e parlavano intramezzando i discorsi con cenni del capo, movimenti delle mani ed esclamazioni, come tutte le persone anziane che non hanno molte occasioni di incontrare gente. Edoardo si rivolgeva al padre dandogli del lei e rispondeva pacatamente alle osservazioni della madre. Le riusciva difficile comprendere quello che dicevano quelle due persone che sembravano essere state tirate fuori da scatole di cartone e posate sulle mensole sbagliate!Si sforzò di seguire il lungo eloquio, punteggiato di osservazioni e di digressioni della padrona di casa e riuscì a capire che stava descrivendo una grande festa alla quale aveva partecipato con il marito in occasione delle nozze d’oro di una sua cugina e per dirle qualcosa di gentile le chiese se le sarebbe piaciuto un ricevimento simile per l’anniversario del suo matrimonio, la vecchia la guardò dondolando il capo e nascondendo le mani nodose nelle tasche del grembiule: “No, no… mi manca una figlia!”
Più tardi, coricandosi nel grande letto con le lenzuola di flanella, stentò ad addormentarsi perché la stanza, dava su una stradina interna dove si affacciavano altre case e il pianto acuto di un bambino sembrava volere entrare dalla finestrina alla sommità della parete. Si sentì la voce di una nonna che cercava di blandire e consolare cantando una ninna nanna:
“Ninna nanna, ninna nanna, nannarella, Lu lupu s’à mangiatu la picurella…”
Nel dormiveglia, le sembrò che il grande specchio strinato del comò si curvasse all’interno e, senza meraviglia, vide la ragazza intravista nel pomeriggio. Aveva poggiato le stoffe, in bell’ordine, sopra una grande tavola e c’erano il ditale, forbici, un metro, un cestino da lavoro, colmo di matassine e spagnolette di vari colori, e sulla pettina del grembiule che indossava, infilati, aghi di diverse dimensioni. Le stoffe erano sete e velluti e merletti e trine accatastate con cura. La ragazza era curva e intenta al suo lavoro; teneva tra le mani un delicato merletto traforato ma, di tanto in tanto gettava occhiate avide alle pagine di un fotoromanzo, mezzo nascosto, nelle quali si intravedevano le attrici in pose languide con i volti truccati e le ciglia appesantite dal rimmel, poco lontano il cane dormiva con la testa poggiata sulle zampe incrociate, ad un tratto la ragazza fece un movimento brusco ed improvviso; forse per distrazione si era bucata un dito con l’ago. Il sangue spicciava copioso e rosso dalla mano, macchiando il merletto che cadde sul pavimento, il cane balzò in piedi, cominciò a frugare e strapazzare la stoffa leggera sporcandosi il muso di sangue e mentre continuava a dilaniarla, il sonno con mano leggera cancellò l’immagine dallo specchio. Si rivoltò sotto le coperte e capì perché si era stupita quando l’aveva vista scivolare tra gli alberi seguita dal cane, era per il suo modo di vestire!Una gonna di stoffa scozzese a pieghe, le scarpe basse alla “cenerentola”, i capelli leggermente cotonati e appuntati con le forcine sulla nuca, proprio come ci vestivamo negli anni ’60, pensò chiudendo gli occhi.
Rabbrividendo e stringendosi nella vestaglia di lana, aprì la porta della cucina e si sedette al tavolo dove il caffè appena fatto e i biscotti, erano stati posati. Il caffè aveva un buon aroma e se ne versò una dose abbondante in una tazzina alzando gli occhi verso Edoardo che, centellinando il suo cappuccino, le parlava della sua infanzia, delle sorelle, dei loro giochi….. senza giocattoli! Non tanto, le sembrava di capire, per mancanza di mezzi da parte dei genitori, quanto per una consuetudine in uso nella campagna, la sorella minore si era comprata una bambola quando aveva cominciato a lavorare!Certo, guardando fuori, riusciva ad immaginare che i bambini potevano inventare mille modi felici per divertirsi; correndo, arrampicandosi sugli alberi, mangiando la frutta, giocando con gli animali. Mentre ascoltava, una gattina dal pelo rosso, con gli occhi gialli, entrò dalla porta aperta con fare guardingo accostandosi, senza miagolare, alla donna che intenta a lavare le tazze della colazione, con noncuranza, le buttò un pezzo di pane duro sul pavimento. La gattina lo girò e lo rigirò con le zampe frantumandolo tra i denti e ingoiandolo avidamente. Sgranò gli occhi stupita; era la prima volta che vedeva un gatto mangiare pane duro!In silenzio, continuava ad ascoltare il suo amico che descriveva un mondo a lei sconosciuto, affascinante e difficile da vivere:
“…sino agli anni settanta, non c’era luce elettrica, facevo i compiti, infreddolito e battendo i denti, sul tavolo dove mangiavamo, con un lume a petrolio posato accanto ai libri e ai quaderni”.
I soli lumi a petrolio che lei ricordava erano quelli che avevano sparsa una luce discreta e romantica sulle “notti brave” delle sue vacanze estive nell’isola di Stromboli!
La sorella maggiore non aveva potuto continuare gli studi dopo le elementari, perché la scuola media era in città, non c’erano molti mezzi di trasporto e una ragazzina, secondo la mentalità del tempo e del luogo non poteva usare la bicicletta, ma intelligente e vivace, era andata ad imparare “il mestiere” da una sarta riuscendo a diventare molto brava. Le donne del vicinato venivano ad ammirare i suoi lavori, le facevano complimenti e tutte quelle che avevano figli l’avrebbero desiderata come nuora perché era svelta e abile nella faccende di casa e sbrigava tutte le incombenze con allegria ed una grazia che la rendevano simpatica. A quattordici anni, pur essendo una ragazzina, era forzata, come le sue coetanee a fare la “persona grande”!
Che peccato, pensava mentre insieme ad Edoardo raccoglieva i melograni che, attraverso la buccia spaccata mostravano l’interno. L’anziana madre, seduta sulla panchina di pietra, vicino la porta di casa sgranava i frutti accomodandoli in un cesto ed i chicchi erano così lucenti e brillanti mentre il rosso esplodeva illuminando le foglie verdi sulle quali erano adagiati che un’ondata di felicità le strinse forte le mani “Le Miniere di Re Salomone” pensò, facendoli scorrere tra le dita.
La sensazione di calma e serenità sembravano penetrare i giardini davanti la casa ma Edoardo additandoli con il braccio alzato la invitò a guardare e ad immaginare la cava di pietra che c’era e che gli mancava, dove bambino, aveva giocato con le sorelle. Estraniandosi e come continuando un discorso, chissà quando iniziato, la donna raccontava, con un sorriso sulle labbra sottili della figlia “grande”, come la chiamava, e di un giorno in cui le era parso che si fosse strappata i peli delle sopracciglia e anche Edoardo rideva, rammentandosi la madre china, per controllare, sulla sorella che faceva finta di dormire con il lenzuolo tirato sul viso.
La ragazza era bella e molti le facevano la corte “a distanza”, uno di loro fu più fortunato degli altri, forse perché era stato fuori a lavorare ed appariva fiero e sicuro di sé ma non possedeva molta “terra” e la sua famiglia non era benestante, così il padre, interpellato su un possibile fidanzamento, rispose che la figlia era ancora piccola, troppo “nica” per impegnarsi. Nessuno chiese alla ragazza il suo parere!
Più tardi, vedendo il padre entrare in casa con una piccola botte di vino nuovo, lei si chiese come quel vecchietto arzillo e querulo con un mozzicone di sigaretta sempre all’angolo della bocca sdentata, avesse potuto decidere della vita della figlia, convinto di sapere quello che era bene per lei. Con la coda dell’occhio la scorse, seduta al suo tavolo da lavoro ma l’atmosfera era cambiata; l’aria era carica di elettricità e anche le stoffe, messe alla rinfusa, avevano perso la loro freschezza. Con il mento sulla mano, fissava il vuoto e, macchinalmente, spingeva con il piede il cane che ringhiava sotto la sedia.
Durante la notte fu di nuovo svegliata dal pianto del bambino, accompagnato dalle note dolenti della ninna nanna:
“O picurella mia, comu facisti Quannu’n bucca a lu lupo ti vidisti?”
Non riusciva a riaddormentarsi, un pensiero strisciava lentamente nella sua mente, mischiandosi con frammenti di parole ed immagini, scuotendo il torpore dei suoi sentimenti:sentiva, confusamente, di voler capire le apparizioni che le si proponevano, secondo sequenze sempre più nitide, come se qualcuno chiedesse attenzione o forse partecipazione.
Chiudendo gli occhi, mentre le parole della ninna nanna sbiadivano e si allontanavano:
“O picurella mia, comu facisti…?”
decise di continuare a non fare domande, ascoltando Edoardo, suo padre e sua madre e… guardare e fantasticare intorno ai messaggi che le sarebbero arrivati.Era coinvolta!Avvertiva un trasporto, un desiderio di protezione nei confronti della ragazza che le si palesava con grande naturalezza, come facente parte del paesaggio e, difatti, senza turbamento accettava la sua tacita presenza.
(continua)